LA VITA DI “UNA VOLTA”. “U FILOSU” By Giacomo Bernardi.

Immagine: “Filosu e chisulèin” di Mario Previ.

Un tempo non lontano, queste erano giornate di “filossi”. Una pratica che molti di noi hanno avuto modo di sperimentare, sia pure in giovanissima età. Una tradizione che l’avvento della televisione ha spazzato via in modo definitivo. Mi piacerebbe, con questo scritto, poter far capire ai più giovani cosa fosse un “filosu”.

Il filosso
Nelle lunghe e fredde serate invernali, quando il lavoro dei campi era reso impossibile dalla neve e dal freddo, prendeva l’avvio quello che si poteva chiamare un rito: “al filosu”.
Era questo uno dei momenti essenziali della vita contadina d’un tempo, momento raccolto e disteso che durava lungo tutta la stagione invernale.
Le tenebre, che nella cattiva stagione scendevano presto, invitavano intere famiglie a riunirsi attorno al fuoco, e la casa ove di volta in volta si svolgeva il “filosu”, diventava come un’oasi sicura.
All’incerta luce di qualche povera fonte luminosa che spesso emanava poco piacevoli effluvi di carburo o petrolio, si scopriva la gioia dello stare insieme, del comunicare. Si parlava un po’ di tutto: di fatti recenti e remoti, vicini e lontani. Storie vere di gente che moriva, si sposava, si fidanzava, partiva. I vecchi riandavano con la memoria agli anni del servizio militare, e raccontavano le più impensabili avventure.
Poi, mano a mano che la sera avanzava, uscivano le storie fantastiche popolate di “strie”, di spiriti, di folletti, di luoghi nei quali “ci si sentiva”, di morti riapparsi.
Ma il filosso era anche momento di cultura: ci si scambiavano pareri sui lavori, sulle compere, sulle leggi che di volta in volta uscivano, si commentavano i fatti nazionali più importanti che qualcuno aveva avuto occasione di conoscere. Si tramandavano proverbi e modi di dire, filastrocche, canti, usanze, tradizioni.
Verso le dieci, il filosso s’andava spegnendo e, poco a poco, qualcuno, dopo aver preso la seggiola che di solito si portava, dava la buona notte e rincasava.
La sera successiva, magari in un’altra abitazione, riprendeva questo rito che era sì occasione di chiacchiere e pettegolezzi, ma che in realtà aveva una funzione importante: quella di stringere le famiglie del villaggio in un vincolo di amicizia e solidarietà, che rendeva le comunità omogenee. Così nei momenti di bisogno, nella gioia come nel dolore, nessuno si sentiva solo perché la gioia di uno era gioia di tutti, e al dolore del singolo tutta la comunità prendeva parte.
Ar Lünariu burg’zan 1983 – (Da: “Aspetti di civiltà contadina in Valtaro-Acqueforti di Mario Previ – Testi di Giacomo Bernardi-1982”)

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