Il romanzo storico “La voce della montagna” di Claudio Bargelli nella accurata recensione di Francesca Avanzini

La scrittrice e critica letteraria Francesca Avanzini ha recensito il bel romanzo storico di Claudio Bargelli: “La voce della montagna”

Il romanzo storico: La voce della montagna

È un romanzo corale, La voce della montagna di Claudio Bargelli. Protagonisti, i poveri abitanti di un villaggio dell’Appennino tosco-emiliano a metà Settecento, ma potrebbe essere il Medio Evo, per quanto le cose non sono cambiate da allora. Stessa povertà, stessa fame, stesso lerciume figlio della miseria, stesse anime ristrette dagli stenti e dall’ignoranza, soggiogate da una religione cupa che vede il maligno ovunque, un po’ come nella Valle delle donne lupo di Laura Pariani.
Il paese è un grappolo di case di pietra strette fra loro e dominate dal campanile, sulle quali incombe la montagna. D’inverno, quando nevica, non smette per giorni e giorni, e la neve si accumula in massi che poi s’induriscono. Giù dabbasso, un torrente in cui è facile scivolare ed essere travolte come la Marinella della canzone, in alto una fonte miracolosa e tutt’intorno la selva buia e spaventosa, sede di ogni male, popolata di presenze magiche che fanno perdere vita e ragione a chi vi si addentra, ma in cui è possibile anche assistere al ballo delle fate.
I pericoli si annidano ovunque quotidianamente, e in tale contesto l’unico rifugio sono la fede o il vino. La sudicia tana dell’oste Tre Chiappe è il ricettacolo dei vinti dalla vita, che nel rosso balordo affogano le proprie pene. Le deformità fisiche rispecchiano quelle morali, perché, con buona pace degli idilli rurali, non è vero che la povertà generi virtù, può anche generare vizio e aberrazione.
Gobbe, pustole, malattie della pelle, magrezze malsane affliggono la gente di montagna, e hanno continuato ad affliggerla fino alle soglie del Novecento. Via dalla folla deodorata e uniforme, anche nei tratti, di oggigiorno, nel villaggio spiccano le particolarità: nasi adunchi, guance scavate, corpi erculei o deformi. Ognuno nel paese ha un soprannome e Bargelli, storico di professione, indugia con evidente piacere a raccontare costumi e individualità, ricreando la vita dura della montagna e il presepe vivente dei mestieri di un tempo: il cestaio che è anche falegname-artista e trae dai ceppi le forme che vi si nascondono, il fabbro cavadenti, il gigantesco maniscalco, Malvina la guaritrice cieca, Valdo il pastore selvatico, le beghine malevole, Crispino il calzolaio balbuziente e così via. Un paese che ha i suoi strambi e i suoi freak, da Malachia che vive con e per le sue bambole, a Ronco lo storpio semi-bestia, al laido nano Buffetto. Un paese che per sopravvivere deve essere solidale, ma che è anche diviso da cattiverie e malevolenze come sa bene chiunque abbia abitato in un posto piccolo.
Su questo paese il male infierisce nelle vesti di un orco che uccide, strazia e viola di preferenza vergini in età da marito, unico tocco di grazia nello squallore della vita montana.
Uomo o diavolo, i paesani si mettono sulle sue tracce, e il folaio, cioè il raccontatore di favole Zeffirino, il solo dotato di strumenti culturali, si improvvisa detective.
Bargelli è molto abile nel mantenere la suspense, il sospetto del lettore cade ora su questo, ora sull’altro fino allo scioglimento finale che, mimando il ritmo circolare del mondo contadino, si riallaccia all’inizio.
Una storia ambientata nel passato ma sempre tristemente attuale, perché ora fame e piaghe non uccidono più noi, bensì i migranti e i popoli del cosiddetto terzo mondo, mentre l’Apocalisse ambientale incombe sulle vite di tutti e potrebbe renderle miserevoli come quelle di un tempo. Senza parlare degli orchi assassini di donne che si tramandano dalla notte dei tempi.
Il linguaggio è prezioso, ricercato, piacevolmente desueto, e aggiunge fascino a una storia che va gustata lentamente, con ritmi d’antan. Chiara l’identificazione dello scrittore col cantastorie Zeffirino, che affida la sua eredità spirituale, la sua idea di un mondo pervaso da un identico soffio vitale, in cui uomini e animali si equivalgono e si capiscono, alla giovane Fiammetta, unica in grado di recepirla, unico baluardo di gioia e bellezza nella tetra vita della montagna, e grande la capacità di far rivivere un ambiente pervaso di superstizioni, presenze inquietanti, paure che solo da poco ci siamo lasciati alle spalle.
Francesca Avanzini (scrittrice e critica letteraria)

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