Storie d’emigrazione in Appennino. Nonna Candida di Fausto Ferrari

STORIE DI FAMIGLIA
Mia nonna Candida, pur vivendo da contadina conservando un’aria di donna timida e umile, nel minuscolo villaggio di Ferrai (comune di Vernasca Pc), dove io sono nato, riusciva sempre a portare con sé una eleganza e un portamento “inglese” dei tanti anni vissuti a Londra, ma sapeva farsi valere anche in casa. In fondo fu spedita a casa dall’Inghilterra appena finita la guerra insieme a mio nonno e mio padre, i quali avevano trascorso cinque lunghi anni di prigionia all’isola di Man, in quel tempo ricca di campi di concentramento. Successe che, il 10 giugno del 1940, Mussolini si affacciò dal balcone di Piazza Venezia in Roma, con le celebri parole ai “Combattenti di terra, di mare, dell’aria…”, e annunciò l’entrata dell’Italia nel secondo conflitto mondiale.
Naturalmente il governo inglese si cautelò immediatamente, catturando tutti gli emigrati italiani residenti nel regno, tra cui appunto mio padre e mio nonno e li internò nei campi di prigionia, allestiti celermente in vari punti dello stato anglosassone. L’isola di Man, situata tra l’Irlanda e la Gran Bretagna ben si prestava a contenere campi di concentramento, vista la sua posizione in mezzo a un mare tempestoso.
Mio nonno fu deportato in un campo vicino a Douglas, quella che adesso è la capitale dell’isola, mio padre invece al Campo di Hutchinson, fuori dalla capitale dell’isola. A mio padre andò bene, perché doveva essere spedito in Canada con la nave Arandora Star, ma all’ultimo decisero di tenerlo dov’era. La nave, come la storia racconta, il 2 luglio 1940, alle 07.05, fu silurata dal sottomarino tedesco U47, comandato dal capitano Günther Prien. La nave conteneva 734 civili maschi italiani e 479 tedeschi. 682 persone morirono.
Ma questa è un’alta storia che prima o poi vi racconterò.
Comunque volevo parlarvi di mia nonna. Lei per me, quando scendevo al villaggio, era il volto della casa seduta in cucina, era l’odore del pane e delle mele seccate e conservate. Era la mano del rosmarino e la voce della preghiera. Era la mano che mescolava l’acqua e la farina, era il forno e il pane con burro e zucchero, era il paiolo sul camino con il minestrone che continuamente ribolliva.
Era il continuo ricucire in casa e nel cortile insieme alle altre razdore, era la storia dei nostri lunghi inverni.
Teneva sempre gli occhi bassi come fosse un segno di malinconia, io pensavo che forse gli mancava quella città lontana. Ma quando mi vedeva i suoi occhi si illuminavano sempre.
A volte, intrecciando rametti di salice, mi faceva certi buffi berretti che somigliavano a quelli dei marinai del Galles.
Mi ricordo che si pettinava ogni sera prima di coricarsi, perché voleva “essere in ordine” diceva, se mai da qualche parte avesse dovuto presentarsi. E niente, oggi mi è venuta in mente e ho sentito forte il desiderio di parlarne un po’…

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